STORIA DELLA MEDICINA
Medicina in Toscana Il ruolo centrale che la cultura del Rinascimento conferiva all’empirismo è indubbiamente una delle ragioni che spiegano il precoce affermarsi della scienza anatomica in Toscana. Fu da questi presupposti che l’interesse degli studiosi si allargò a considerare anche le cause e le patologie meno visibili. A medici toscani come Targioni Tozzetti si debbono preziose intuizioni sulla malattia del vaiolo, mentre sin dalla fine del XVIII secolo emerge con chiarezza una precoce attenzione per i disagi mentali. A testimonianza di questa secolare ricerca scientifica rimangono istituzioni storiche che in molti casi rappresentano anche preziosi esempi di architettura rinascimentale e barocca.
Lo sviluppo dell'anatomia nel Rinascimento Nel Rinascimento, la maggiore attenzione alla pratica sperimentale nelle varie discipline del sapere produsse, in campo medico, uno sviluppo degli studi di anatomia. Sul finire del Quattrocento, Antonio Benivieni, medico dell'Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, raccolse nella sua opera più di cento osservazioni cliniche, frutto di un attento esame necroscopico, per le quali è comunemente ritenuto il precursore dell'anatomia patologica.
Nello stesso periodo, il progresso delle conoscenze anatomiche procedeva di pari passo con lo sviluppo delle opere dedicate alla farmacologia e alla terapeutica: nel 1498 fu pubblicata a Firenze la prima opera di farmacopea, il Nuovo Receptario.
Gli studi del corpo umano di Leonardo da Vinci Nei primi anni del Cinquecento, Leonardo da Vinci si dedicò allo studio del corpo umano praticando la dissezione dei cadaveri nell'Ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova: di questa attività ci restano numerosi disegni, giustamente ritenuti dei capolavori di anatomia scientifica. Le sue osservazioni, incentrate sulla comparazione tra il corpo umano e la macchina, rivoluzionarono la scienza medica tradizionale. Leonardo fu il primo a rappresentare segmenti dello scheletro e a ricorrere all'esempio della leva per spiegare i meccanismi delle articolazioni; rappresentò le fasce muscolari con fili o corde, mettendone in evidenza l'azione meccanica; negli studi sulle vertebre cervicali paragonò i muscoli che sorreggono il collo alle sàrtie che sostengono l'albero delle navi.
Le scuole di chirurgia ospedaliere Nel Cinquecento erano già attive in Toscana, oltre ad un insegnamento di Chirurgia presso lo Studio pisano, varie scuole di chirurgia annesse ad ospedali, come la scuola dello Spedale del Ceppo di Pistoia e la Scuola Medico-Chirurgica dell'Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Proprio nell'ospedale fiorentino, per volere di Cosimo I de' Medici, tutti i medici ed i chirurghi della Toscana dovevano sostenere l'esame di abilitazione alla professione medica. In questi anni, la chirurgia, grazie anche al fondamentale contributo di Andrea Vesalio negli studi anatomo-fisiologici (De humani corporis fabrica, 1543), non è più considerata un'arte inferiore lasciata esclusivamente ai cerusici e ai barbieri, ma una materia destinata ad entrare nel curricolo del medico.
Le ricerche mediche nell'ambito dell'Accademia del Cimento Nell'ambito della galileiana Accademia del Cimento (1657-1667) fu ideato, a partire dal termoscopio, il termometro fiorentino ad alcool. Lo strumento, oltre ad avere un uso meteorologico, fu usato anche in campo medico. Una variante dello strumento, il cosiddetto termometro a ranocchietta, fu utilizzato per misurare la temperatura del corpo umano (i termometri dell'Accademia sono oggi conservati presso l'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze). L'attività degli accademici si avvalse dell'uso di uno strumento decisivo, il microscopio, uno strumento inventato all'inizio del Seicento.
Un passo decisivo nello sviluppo della medicina, soprattutto sotto il profilo della ricerca sperimentale, è rappresentato dalle geniali ricerche del medico aretino Francesco Redi che, con una procedura sperimentale esemplare, dimostrò l'infondatezza della generazione spontanea. Un altro accademico del Cimento, Giovanni Alfonso Borelli, compì importantissimi studi sulla struttura ossea degli animali in rapporto al loro peso e movimento. Particolarmente significativi risultarono anche gli studi di Lorenzo Bellini, un allievo di Borelli, che, nel 1653 spiegò come nel rene avvenga la separazione dal sangue di quella che egli definì una "sierosità superflua", cioè l'urina.
Ricerche mediche nel Settecento Nel Settecento, Giovan Battista Morgagni, una delle maggiori figure nell'ambito degli studi medici, definì il rapporto causale tra le malattie e le lesioni anatomiche degli organi colpiti, osservazioni che, ancora oggi, gli valgono il titolo di fondatore dell'Anatomia Patologica. In Toscana gli studi anatomici si arricchirono ancora grazie all'opera dell'abate Felice Fontana. Egli realizzò nel Museo di Fisica e Storia Naturale un laboratorio di ceroplastica per la realizzazione di parti anatomiche a scopo didattico, collaborando con famosi ceroplasti alla preparazione delle cere anatomiche oggi conservate alla Museo della Specola di Firenze.
Ricerche mediche nell'Ottocento Si deve a Paolo Mascagni, di cui ci resta uno studio fondamentale sui vasi linfatici, la più bella opera anatomica ottocentesca: nel 1823, sette anni dopo la sua morte, uscì a Pisa la Anatomia universa, monumentale lavoro a cui lo scienziato si era dedicato per anni.
L'Ottocento segnò un momento determinante nell'ambito degli studi medico-biologici, con la definizione di questioni quali la riproduzione, la determinazione del sesso e l'ereditarietà. In Toscana, rilevante è l'attività del modenese Giovanni Battista Amici: le sue innovazioni nel campo della costruzione dei microscopi dettero all'anatomia efficaci strumenti per studiare la struttura dei corpi minuti. Il pistoiese Filippo Pacini, primo in Italia a tenere un corso di Anatomia microscopica, scoprì nel 1853, ancora studente, i corpuscoli che determinano il tatto, descrisse la struttura della retina e, antesignano della batteriologia, descrisse il vibrione del colera. Egli fu, insieme a Pietro Betti e a Maurizio Bufalini, tra i fondatori della Società Medico Fisica fiorentina presso la quale fu istituito il Museo Patologico.
Lo sviluppo dell'anatomia nel Rinascimento Nel Rinascimento, la maggiore attenzione alla pratica sperimentale nelle varie discipline del sapere produsse, in campo medico, uno sviluppo degli studi di anatomia. Sul finire del Quattrocento, Antonio Benivieni, medico dell'Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, raccolse nella sua opera più di cento osservazioni cliniche, frutto di un attento esame necroscopico, per le quali è comunemente ritenuto il precursore dell'anatomia patologica.
Nello stesso periodo, il progresso delle conoscenze anatomiche procedeva di pari passo con lo sviluppo delle opere dedicate alla farmacologia e alla terapeutica: nel 1498 fu pubblicata a Firenze la prima opera di farmacopea, il Nuovo Receptario.
Gli studi del corpo umano di Leonardo da Vinci Nei primi anni del Cinquecento, Leonardo da Vinci si dedicò allo studio del corpo umano praticando la dissezione dei cadaveri nell'Ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova: di questa attività ci restano numerosi disegni, giustamente ritenuti dei capolavori di anatomia scientifica. Le sue osservazioni, incentrate sulla comparazione tra il corpo umano e la macchina, rivoluzionarono la scienza medica tradizionale. Leonardo fu il primo a rappresentare segmenti dello scheletro e a ricorrere all'esempio della leva per spiegare i meccanismi delle articolazioni; rappresentò le fasce muscolari con fili o corde, mettendone in evidenza l'azione meccanica; negli studi sulle vertebre cervicali paragonò i muscoli che sorreggono il collo alle sàrtie che sostengono l'albero delle navi.
Le scuole di chirurgia ospedaliere Nel Cinquecento erano già attive in Toscana, oltre ad un insegnamento di Chirurgia presso lo Studio pisano, varie scuole di chirurgia annesse ad ospedali, come la scuola dello Spedale del Ceppo di Pistoia e la Scuola Medico-Chirurgica dell'Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Proprio nell'ospedale fiorentino, per volere di Cosimo I de' Medici, tutti i medici ed i chirurghi della Toscana dovevano sostenere l'esame di abilitazione alla professione medica. In questi anni, la chirurgia, grazie anche al fondamentale contributo di Andrea Vesalio negli studi anatomo-fisiologici (De humani corporis fabrica, 1543), non è più considerata un'arte inferiore lasciata esclusivamente ai cerusici e ai barbieri, ma una materia destinata ad entrare nel curricolo del medico.
Le ricerche mediche nell'ambito dell'Accademia del Cimento Nell'ambito della galileiana Accademia del Cimento (1657-1667) fu ideato, a partire dal termoscopio, il termometro fiorentino ad alcool. Lo strumento, oltre ad avere un uso meteorologico, fu usato anche in campo medico. Una variante dello strumento, il cosiddetto termometro a ranocchietta, fu utilizzato per misurare la temperatura del corpo umano (i termometri dell'Accademia sono oggi conservati presso l'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze). L'attività degli accademici si avvalse dell'uso di uno strumento decisivo, il microscopio, uno strumento inventato all'inizio del Seicento.
Un passo decisivo nello sviluppo della medicina, soprattutto sotto il profilo della ricerca sperimentale, è rappresentato dalle geniali ricerche del medico aretino Francesco Redi che, con una procedura sperimentale esemplare, dimostrò l'infondatezza della generazione spontanea. Un altro accademico del Cimento, Giovanni Alfonso Borelli, compì importantissimi studi sulla struttura ossea degli animali in rapporto al loro peso e movimento. Particolarmente significativi risultarono anche gli studi di Lorenzo Bellini, un allievo di Borelli, che, nel 1653 spiegò come nel rene avvenga la separazione dal sangue di quella che egli definì una "sierosità superflua", cioè l'urina.
- Istituto e Museo di Storia della Scienza
- Francesco Redi
- Giovanni Alfonso Borelli
- Dal termoscopio al termometro
- Origine e sviluppo del microscopio
- Scienziati a Corte. L'arte della sperimentazione nella Accademia Galileiana del Cimento (1657-1667)
- Termometro a grappolo
- Termometri cinquantigradi
- Termometro "a ranocchietta"
- Microscopio composto galileiano
- Francesco Redi, scienziato e poeta alla Corte dei Medici
Ricerche mediche nel Settecento Nel Settecento, Giovan Battista Morgagni, una delle maggiori figure nell'ambito degli studi medici, definì il rapporto causale tra le malattie e le lesioni anatomiche degli organi colpiti, osservazioni che, ancora oggi, gli valgono il titolo di fondatore dell'Anatomia Patologica. In Toscana gli studi anatomici si arricchirono ancora grazie all'opera dell'abate Felice Fontana. Egli realizzò nel Museo di Fisica e Storia Naturale un laboratorio di ceroplastica per la realizzazione di parti anatomiche a scopo didattico, collaborando con famosi ceroplasti alla preparazione delle cere anatomiche oggi conservate alla Museo della Specola di Firenze.
- Museo di Storia Naturale di Firenze - Sezione di Zoologia ('La Specola')
- Felice Fontana
- Museo di Fisica e Storia Naturale
- Istituto Statale della SS. Annunziata - Villa Medicea di Poggio Imperiale
- Giovanni Targioni Tozzetti
- Pietro Leopoldo di Lorena
- Ex Ospedale di Bonifazio
- Ex Ospedale di Santa Dorotea
- Ex Ospedale Psichiatrico San Niccolò
- Ex Ospedale Psichiatrico di Arezzo
- Ex Ospedale psichiatrico di Fregionaia
- Ex Ospedale Psichiatrico di San Salvi
Ricerche mediche nell'Ottocento Si deve a Paolo Mascagni, di cui ci resta uno studio fondamentale sui vasi linfatici, la più bella opera anatomica ottocentesca: nel 1823, sette anni dopo la sua morte, uscì a Pisa la Anatomia universa, monumentale lavoro a cui lo scienziato si era dedicato per anni.
L'Ottocento segnò un momento determinante nell'ambito degli studi medico-biologici, con la definizione di questioni quali la riproduzione, la determinazione del sesso e l'ereditarietà. In Toscana, rilevante è l'attività del modenese Giovanni Battista Amici: le sue innovazioni nel campo della costruzione dei microscopi dettero all'anatomia efficaci strumenti per studiare la struttura dei corpi minuti. Il pistoiese Filippo Pacini, primo in Italia a tenere un corso di Anatomia microscopica, scoprì nel 1853, ancora studente, i corpuscoli che determinano il tatto, descrisse la struttura della retina e, antesignano della batteriologia, descrisse il vibrione del colera. Egli fu, insieme a Pietro Betti e a Maurizio Bufalini, tra i fondatori della Società Medico Fisica fiorentina presso la quale fu istituito il Museo Patologico.
- Museo Anatomico dell'Università degli Studi di Firenze
- Museo di Anatomia Patologica dell'Università degli Studi di Firenze
- Museo di Anatomia Umana del Dipartimento di Morfologia Umana e Biologia Applicata dell'Università degli Studi di Pisa
- Filippo Pacini
- Giovanni Battista Amici
- Microscopio a riflessione tipo Amici
LA PESTE Un flagello, la "Morte nera"
Per secoli l'andamento demografico veneziano fu dominato dalla peste: la Morte nera. Secondo i dati dei censimenti militari, nel 1200 i veneziani erano 80.000, nel '300 si stimavano in almeno 160.000, in tutta l'area lagunare, dei quali 120.000 abitanti nella città. Tali cifre sono impressionanti se solo pensiamo che nell'Europa occidentale medievale veniva considerata grande città un centro con 10.000 abitanti! Quindi Venezia doveva essere considerata con le dimensioni di una metropoli. Nel 1330 Milano, Firenze, Napoli e Palermo contavano una popolazione pari a quella veneziana. Solo Parigi poteva avvicinarsi ai 100.000 abitanti. E fu nel 1348. quando Venezia e le più importanti città d'Europa avevano ormai superato le 100.000 unità, che la peste decimò la popolazione.
La Morte nera si presentava in due forme: una era la forma bubbonica, che si manifestava appunto con dei gonfiori, i bubboni, di colore nerastro; l'altra era la malattia polmonare, con sintomi della polmonite acuta, trasmessa con contagio da persona a persona. La diversità tra le due forme non era ben chiara ai veneziani, quindi se la quarantena poteva impedire la diretta diffusione della forma polmonare, a nulla giovava contro la forma bubbonica. L'infezione polmonare era sempre la conseguenza di un caso di peste bubbonica. La sua trasmissione era dovuta alle pulci infette dei topi ospiti delle navi. E precisamente dall'Oriente fece il suo nefasto arrivo: Caffa, stazione della Crimea frequentata da veneziani e genovesi era assediata dai tartari, già decimati dalla malattia, i quali per piegare la resistenza degli assediati, pensarono di catapultare i loro morti nella città. Nell'autunno del 1347 una galera veneziana da Caffa portò in Italia i topi impestati. Nei diciotto mesi che seguirono morirono di peste i tre quinti dei veneziani, dati desunti dai censimenti del 1347-1349.
Dal 1348 seguirono tre secoli funestati dalla Morte nera. Alle decimazioni seguivano notevoli riprese dell'andamento demografico. Nel 1500 il numero dei veneziani era pressapoco lo stesso del '300: intorno ai 120.000.
Nei settant'anni che seguirono, la popolazione urbana s'incrementò fino 190.000 abitanti, cifra che non venne mai più superata. Gravi flessioni si registrarono a seguito delle due pestilenze del 1575-1577 e del 1630-1631: ciascuna falciò un terzo della comunità veneziana.
A ricordo della fine delle due epidemie si festeggiano ancora oggi due ricorrenze tradizionali veneziane. La terza domenica di Luglio ricorre la festa del Redentore -l'omonima Chiesa , costruita su progetto di Andrea Palladio, tra il 1577 e il 1592, fu innalzata dopo la peste del 1575- molto sentita dalla comunità che affluisce in gran massa alla Giudecca, collegata per l'occasione con un ponte di barche tra l'isola e la riva delle Zattere.
Ponte che attraversa il canale della Giudecca congiungendo le zattere alla Chiesa del Redentore.votivo costruito sopra barche,
La Festa della Salute è anch'essa una festa religiosa legata al ricordo della fine della peste del 1630. I veneziani accorrono numerosi al tempio votivo tramite un ponte di legno su barche che collega in quest'occasione le due rive del Canal Grande, all'altezza del campo di Santa Maria del Giglio. Un tempo era una festa di proporzioni ben più ampie: il doge e la signoria si recavano in gran pompa alla Salute per assistere alle funzioni religiose e per dare un'impronta di ufficialità alle celebrazioni.
Dopo le suddette pestilenze, a Venezia non si registrarono più epidemie e la Peste nera, fortunatamente, scomparve dall'Europa anche perchè, con ogni probabilità, il ratto bruno si diffuse a spese del ratto nero o comune, diretto responsabile delle epidemie. Tuttavia, la peste era pur sempre una minaccia per i porti marittimi, dove il ratto nero, che ospitava le pulci infette, continuava a rimanere tranquillamente. Nel 1720-21 si manifestò a Marsiglia l'ultima epidemia di peste bubbonica, che persistette nel Levante e nei Balcani. Venezia, nella sua vulnerabile e delicatissima posizione di città di frontiera, adottò tutte le precauzioni possibili. Se l'andamento demografico veneziano risentì moltissimo delle epidemie, nondimeno brusche oscillazioni si registrarono in conseguenza di fenomeni migratori. Non appena in città si aveva notizia dell'epidemia, chi poteva scappava nelle campagne. Quando la peste si calmava, non solo rientravano i cittadini, ma vi immigrava gente nuova, che fuggiva da altre epidemie. D'altronde,il Governo veneziano vedeva con favore l'immigrazione per dare impulso all'attività commerciale ed industriale: senza queste "fresche" ondate migratorie Venezia sarebbe inevitabilmente decaduta perchè non poteva riprodursi; solo un terzo della popolazione aveva meno di vent'anni. I tassi di mortalità, specialmente infantili, erano altissimi. In campagna, invece, i minori di vent'anni erano la metà e proprio grazie ai "campagnoli" Venezia si ripopolava. Gli artigiani venivano attirati a Venezia da allettanti agevolazioni e ottenevano la cittadinanza in breve tempo. I loro discendenti preferivano la vita di bottega, del mercante o dell'impiegato governativo. Conseguentemente, l'immigrazione, specie in coincidenza con le pestilenze, diede il suo contributo nel tramutare Venezia da città di marinai in città di artigiani (la tradizione marinara scomparve anche in altre città come conseguenza della Morte nera).
Conseguenza della migrazione fu che le tradizioni delle classi più povere vennero colpite e stravolte; al contrario, la classe nobiliare si potè riprodurre nei secoli funestati dalla Morte nera e mantenere intatto il proprio patrimonio di tradizioni. Riepilogando, per quanto riguarda l'andamento demografico di Venezia, si ebbero delle brusche flessioni dovute alle pestilenze del 1347-49, 1575-77 e del 1630-31; riprese e stabilità dopo il 1300. Nel Sei e Settecento la popolazione si stabilizzò fra i 100.000 e i 160.000 abitanti. Nel 1969 i residenti erano 120.000. Attualmente la popolazione urbana non tocca le 75.000 unità. Responsabile di questa decimazione non è la Morte nera, ma un altro tipo di peste: l'esodo forzato. A quando il ripopolamento di Venezia?
La Punizione degli "Untori'
Venezia (Venice) Il carnevale
La regata storica
Le repubbliche marinare
Il Festival del Cinema Il Gran Teatro La Fenice
I dipinti del Gran Teatro La Fenice Storia dei teatri veneziani Aspetti dei teatri veneziani I giardini Il liberty L'oratorio San Filippo Neri Gli organi del Triveneto Masi Tabià Squeri e Casoni Il banditismo nel Veneto L'isola di San Servolo I Paleoveneti La basilica di San Marco Il Gonfalone di San Marco Acqua Alta 1966 Giovanni Correr e il Porto Franco La caduta della Serenissima La peste a Venezia Il vetro di Murano Le vetrate artistiche
Per secoli l'andamento demografico veneziano fu dominato dalla peste: la Morte nera. Secondo i dati dei censimenti militari, nel 1200 i veneziani erano 80.000, nel '300 si stimavano in almeno 160.000, in tutta l'area lagunare, dei quali 120.000 abitanti nella città. Tali cifre sono impressionanti se solo pensiamo che nell'Europa occidentale medievale veniva considerata grande città un centro con 10.000 abitanti! Quindi Venezia doveva essere considerata con le dimensioni di una metropoli. Nel 1330 Milano, Firenze, Napoli e Palermo contavano una popolazione pari a quella veneziana. Solo Parigi poteva avvicinarsi ai 100.000 abitanti. E fu nel 1348. quando Venezia e le più importanti città d'Europa avevano ormai superato le 100.000 unità, che la peste decimò la popolazione.
La Morte nera si presentava in due forme: una era la forma bubbonica, che si manifestava appunto con dei gonfiori, i bubboni, di colore nerastro; l'altra era la malattia polmonare, con sintomi della polmonite acuta, trasmessa con contagio da persona a persona. La diversità tra le due forme non era ben chiara ai veneziani, quindi se la quarantena poteva impedire la diretta diffusione della forma polmonare, a nulla giovava contro la forma bubbonica. L'infezione polmonare era sempre la conseguenza di un caso di peste bubbonica. La sua trasmissione era dovuta alle pulci infette dei topi ospiti delle navi. E precisamente dall'Oriente fece il suo nefasto arrivo: Caffa, stazione della Crimea frequentata da veneziani e genovesi era assediata dai tartari, già decimati dalla malattia, i quali per piegare la resistenza degli assediati, pensarono di catapultare i loro morti nella città. Nell'autunno del 1347 una galera veneziana da Caffa portò in Italia i topi impestati. Nei diciotto mesi che seguirono morirono di peste i tre quinti dei veneziani, dati desunti dai censimenti del 1347-1349.
Dal 1348 seguirono tre secoli funestati dalla Morte nera. Alle decimazioni seguivano notevoli riprese dell'andamento demografico. Nel 1500 il numero dei veneziani era pressapoco lo stesso del '300: intorno ai 120.000.
Nei settant'anni che seguirono, la popolazione urbana s'incrementò fino 190.000 abitanti, cifra che non venne mai più superata. Gravi flessioni si registrarono a seguito delle due pestilenze del 1575-1577 e del 1630-1631: ciascuna falciò un terzo della comunità veneziana.
A ricordo della fine delle due epidemie si festeggiano ancora oggi due ricorrenze tradizionali veneziane. La terza domenica di Luglio ricorre la festa del Redentore -l'omonima Chiesa , costruita su progetto di Andrea Palladio, tra il 1577 e il 1592, fu innalzata dopo la peste del 1575- molto sentita dalla comunità che affluisce in gran massa alla Giudecca, collegata per l'occasione con un ponte di barche tra l'isola e la riva delle Zattere.
Ponte che attraversa il canale della Giudecca congiungendo le zattere alla Chiesa del Redentore.votivo costruito sopra barche,
La Festa della Salute è anch'essa una festa religiosa legata al ricordo della fine della peste del 1630. I veneziani accorrono numerosi al tempio votivo tramite un ponte di legno su barche che collega in quest'occasione le due rive del Canal Grande, all'altezza del campo di Santa Maria del Giglio. Un tempo era una festa di proporzioni ben più ampie: il doge e la signoria si recavano in gran pompa alla Salute per assistere alle funzioni religiose e per dare un'impronta di ufficialità alle celebrazioni.
Dopo le suddette pestilenze, a Venezia non si registrarono più epidemie e la Peste nera, fortunatamente, scomparve dall'Europa anche perchè, con ogni probabilità, il ratto bruno si diffuse a spese del ratto nero o comune, diretto responsabile delle epidemie. Tuttavia, la peste era pur sempre una minaccia per i porti marittimi, dove il ratto nero, che ospitava le pulci infette, continuava a rimanere tranquillamente. Nel 1720-21 si manifestò a Marsiglia l'ultima epidemia di peste bubbonica, che persistette nel Levante e nei Balcani. Venezia, nella sua vulnerabile e delicatissima posizione di città di frontiera, adottò tutte le precauzioni possibili. Se l'andamento demografico veneziano risentì moltissimo delle epidemie, nondimeno brusche oscillazioni si registrarono in conseguenza di fenomeni migratori. Non appena in città si aveva notizia dell'epidemia, chi poteva scappava nelle campagne. Quando la peste si calmava, non solo rientravano i cittadini, ma vi immigrava gente nuova, che fuggiva da altre epidemie. D'altronde,il Governo veneziano vedeva con favore l'immigrazione per dare impulso all'attività commerciale ed industriale: senza queste "fresche" ondate migratorie Venezia sarebbe inevitabilmente decaduta perchè non poteva riprodursi; solo un terzo della popolazione aveva meno di vent'anni. I tassi di mortalità, specialmente infantili, erano altissimi. In campagna, invece, i minori di vent'anni erano la metà e proprio grazie ai "campagnoli" Venezia si ripopolava. Gli artigiani venivano attirati a Venezia da allettanti agevolazioni e ottenevano la cittadinanza in breve tempo. I loro discendenti preferivano la vita di bottega, del mercante o dell'impiegato governativo. Conseguentemente, l'immigrazione, specie in coincidenza con le pestilenze, diede il suo contributo nel tramutare Venezia da città di marinai in città di artigiani (la tradizione marinara scomparve anche in altre città come conseguenza della Morte nera).
Conseguenza della migrazione fu che le tradizioni delle classi più povere vennero colpite e stravolte; al contrario, la classe nobiliare si potè riprodurre nei secoli funestati dalla Morte nera e mantenere intatto il proprio patrimonio di tradizioni. Riepilogando, per quanto riguarda l'andamento demografico di Venezia, si ebbero delle brusche flessioni dovute alle pestilenze del 1347-49, 1575-77 e del 1630-31; riprese e stabilità dopo il 1300. Nel Sei e Settecento la popolazione si stabilizzò fra i 100.000 e i 160.000 abitanti. Nel 1969 i residenti erano 120.000. Attualmente la popolazione urbana non tocca le 75.000 unità. Responsabile di questa decimazione non è la Morte nera, ma un altro tipo di peste: l'esodo forzato. A quando il ripopolamento di Venezia?
La Punizione degli "Untori'
Venezia (Venice) Il carnevale
La regata storica
Le repubbliche marinare
Il Festival del Cinema Il Gran Teatro La Fenice
I dipinti del Gran Teatro La Fenice Storia dei teatri veneziani Aspetti dei teatri veneziani I giardini Il liberty L'oratorio San Filippo Neri Gli organi del Triveneto Masi Tabià Squeri e Casoni Il banditismo nel Veneto L'isola di San Servolo I Paleoveneti La basilica di San Marco Il Gonfalone di San Marco Acqua Alta 1966 Giovanni Correr e il Porto Franco La caduta della Serenissima La peste a Venezia Il vetro di Murano Le vetrate artistiche
LA PESTE NELLA LETTERATURA - Storia della peste
Verso la fine del XIII secolo si arrestò la crescita demografica che fino a quel momento aveva caratterizzato l'Europa ed ebbe inizio una grave crisi economica che si protrasse per circa un secolo e mezzo. Le cause principali di questa depressione, o almeno quelle più appariscenti, furono essenzialmente tre: le pestilenze, le guerre e i mutamenti climatici
Per quanto riguarda il clima, in realtà gli esperti tendono ad escludere che nel periodo considerato si sia verificato un eccessivo raffreddamento rispetto al passato; sembra invece che semplicemente si sia registrato un inaspettato incremento delle precipitazioni, con piogge troppo abbondanti proprio in corrispondenza delle semine autunnali e primaverili e nei periodi immediatamente precedenti il raccolto. Si trattò di un elemento ulteriore che andò ad aggiungersi allo squilibrio già in precedenza creato dalla crescita demografica: la produzione dei terreni, coltivati ancora con tecniche arretrate, non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutta la popolazione.
Per quanto riguarda le guerre, esse portarono a saccheggi, incendi e devastazioni, oltre a sottrarre uomini alle attività lavorative e produttive. Mentre nelle epoche precedenti si era trattato di episodi saltuari che non avevano ostacolato comunque una rapida ripresa, nel XIV secolo si venne a creare una situazione anomala poiché diverse regioni europee furono teatro di operazioni militari praticamente senza sosta. Ad aggravare poi questa situazione critica, proprio in questo periodo si incominciò a fare frequente ricorso ad eserciti mercenari, in cui i soldati utilizzavano sistematicamente il saccheggio come strumento per alimentare ed integrare il loro compenso.
Per quanto riguarda le pestilenze, proprio nel XIV secolo si registrò la più diffusa e terrificante epidemia di tutti i tempi che non soltanto provocò con il suo passaggio migliaia di vittime, ma rimase endemica ricomparendo periodicamente ora in una regione ora in un'altra anche dopo l'intervallo di tempo compreso tra il 1347 ed il 1350 durante il quale la peste devastò l'intera Europa, raggiungendo l'acme in Italia nel 1348.
E' impossibile determinare quanti furono i morti provocati da questa sciagura, ma si può affermare che mai un contagio aveva provocato tanti danni: mentre in passato era stato possibile porre rimedio al brusco calo demografico attraverso un abbassamento dell'età di matrimonio e a nuove nascite, dopo la peste del 1348 il recupero fu ostacolato dal carattere frequente delle epidemie che fecero la loro ricomparsa a intervalli di circa dieci anni. Chi ha provato a fare una stima delle vittime ritiene che sia morta una percentuale compresa tra il trenta e il cinquanta per cento della popolazione.
La peste ebbe origine in oriente, con ogni probabilità in Cina, e si diffuse con grande rapidità, raggiungendo nella primavera del 1347 la prima città europea: si trattava di Caffa,
La peste, che con ogni probabilità ebbe origine in Cina, si diffuse con grande rapidità in Crimea, che a quel tempo era un centro di commercio dei Genovesi. Nell'estate dello stesso anno l'epidemia aveva già colpito Bisanzio e quasi tutti i porti dell'Europa orientale. Dalle zone colpite numerose persone cercarono di emigrare e di raggiungere aree dove fosse possibile sfuggire al contagio, favorendo così inconsapevolmente la sua diffusione. Ben presto dunque la peste raggiunse i porti occidentali, in particolare la Sicilia, Genova, Pisa e Venezia, e di qui si diffuse in tutta l'Europa.
L'Italia fu il paese in cui il morbo si manifestò con maggiore violenza, lasciando segni indelebili e conseguenze che faranno sentire il loro peso anche nei secoli successivi, tanto che qualche storico ha avanzato la proposta di fissare proprio il 1348 come simbolica data della fine del Medioevo. La paura, la sofferenza e la drammaticità della situazione emergono in modo chiaro e sconvolgente dai racconti dei cronisti dell'epoca.
La prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita dall'epidemia nell'Ottobre 1347 fu la Sicilia. Racconta il francescano Michele da Piazza nella sua Historia Siculorum che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che raggiunsero il porto di Messina. Quando i Messinesi intuirono da chi aveva avuto origine il contagio cacciarono le navi, ma ciò non bastò a fermare la peste: da questo momento la morte poteva arrivare improvvisamente. La paura e l'incertezza del domani determinarono un imbarbarimento dei costumi e la moderazione lasciò il campo a comportamenti estremi. Sentimenti come il rispetto e la compassione si affievolirono sempre di più sostituiti da egoismo e timore tanto nei confronti dei vivi quanto nei confronti dei morti. Si cercava di non avere contatti con altre persone che potevano essere infette e numerose città vietarono l'ingresso a chi proveniva da una zona già colpita dalla malattia; tuttavia le numerose eccezioni introdotte a questi divieti non consentirono di evitare i contatti con i malati favorendo il diffondersi dell'epidemia.
Il fatto poi che in una città la peste giungesse dopo essere stata importata da un altro Comune accese una forte conflittualità tra le città non ancora colpite e quelle dove il morbo si era già manifestato e infiammò i rancori che già esistevano. Così un medico di Padova, dove il morbo era stato portato da Venezia, pose in apertura del suo Regime contro la peste questa preghiera: "O tu vera guida, tu che determini ogni cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno, risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fa' sì che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse piuttosto Venezia e le terre dei saraceni …".
Se tra Comuni diversi la situazione era tesa, tra coloro che abitavano in una stessa città le cose non andavano meglio. Il carattere improvviso e letale della malattia e terrore di contrarre il morbo da una persona infetta giustificavano il sentimento di sfiducia nei confronti del prossimo. Gli stessi religiosi, che avrebbero dovuto portare gli estremi conforti a chi stava per morire a causa del morbo, nella maggior parte dei casi, per la paura di infettarsi, non svolgevano il proprio compito e ciò contribuiva ad aggravare la situazione poiché uno dei timori più grandi era proprio quello di morire senza essere riusciti a confessarsi e a ricevere l'estrema unzione.
Racconta il canonico Giovanni da Parma che "molti si confessavano quando erano ancora in salute. Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l'ostia consacrata e l'olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano ad una qualche ricompensa. E quasi tutti i frati mendicanti e i sacerdoti di Trento sono morti …". Se anche chi cadeva malato avesse avuto qualche possibilità di riprendersi superando la fase critica della malattia, il suo destino era segnato per il fatto che egli veniva abbandonato da tutti, non soltanto dagli amici, ma addirittura anche dai familiari.
In molte delle opere letterarie che ci parlano del periodo della peste è presente il riferimento al fatto che la moglie non volesse più vedere il marito e addirittura il padre non volesse più avere nulla a che fare con i figli nel caso in cui fossero stati colpiti dalla malattia. Gli ammalati rimanevano abbandonati nelle case da cui arrivavano le invocazioni di aiuto che però rimanevano inascoltate, mentre i parenti più stretti, piangendo, si mantenevano a distanza.
Emblematico è il racconto di Marchionne di Coppo Stefani, cronista fiorentino,che riferisce: "… moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli diceano: < Io vo per lo medico > e serravano pianamente l'uscio da via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone e poi da cibo, ed accompagnato dalla febbre si venia meno.
Verso la fine del XIII secolo si arrestò la crescita demografica che fino a quel momento aveva caratterizzato l'Europa ed ebbe inizio una grave crisi economica che si protrasse per circa un secolo e mezzo. Le cause principali di questa depressione, o almeno quelle più appariscenti, furono essenzialmente tre: le pestilenze, le guerre e i mutamenti climatici
Per quanto riguarda il clima, in realtà gli esperti tendono ad escludere che nel periodo considerato si sia verificato un eccessivo raffreddamento rispetto al passato; sembra invece che semplicemente si sia registrato un inaspettato incremento delle precipitazioni, con piogge troppo abbondanti proprio in corrispondenza delle semine autunnali e primaverili e nei periodi immediatamente precedenti il raccolto. Si trattò di un elemento ulteriore che andò ad aggiungersi allo squilibrio già in precedenza creato dalla crescita demografica: la produzione dei terreni, coltivati ancora con tecniche arretrate, non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno alimentare di tutta la popolazione.
Per quanto riguarda le guerre, esse portarono a saccheggi, incendi e devastazioni, oltre a sottrarre uomini alle attività lavorative e produttive. Mentre nelle epoche precedenti si era trattato di episodi saltuari che non avevano ostacolato comunque una rapida ripresa, nel XIV secolo si venne a creare una situazione anomala poiché diverse regioni europee furono teatro di operazioni militari praticamente senza sosta. Ad aggravare poi questa situazione critica, proprio in questo periodo si incominciò a fare frequente ricorso ad eserciti mercenari, in cui i soldati utilizzavano sistematicamente il saccheggio come strumento per alimentare ed integrare il loro compenso.
Per quanto riguarda le pestilenze, proprio nel XIV secolo si registrò la più diffusa e terrificante epidemia di tutti i tempi che non soltanto provocò con il suo passaggio migliaia di vittime, ma rimase endemica ricomparendo periodicamente ora in una regione ora in un'altra anche dopo l'intervallo di tempo compreso tra il 1347 ed il 1350 durante il quale la peste devastò l'intera Europa, raggiungendo l'acme in Italia nel 1348.
E' impossibile determinare quanti furono i morti provocati da questa sciagura, ma si può affermare che mai un contagio aveva provocato tanti danni: mentre in passato era stato possibile porre rimedio al brusco calo demografico attraverso un abbassamento dell'età di matrimonio e a nuove nascite, dopo la peste del 1348 il recupero fu ostacolato dal carattere frequente delle epidemie che fecero la loro ricomparsa a intervalli di circa dieci anni. Chi ha provato a fare una stima delle vittime ritiene che sia morta una percentuale compresa tra il trenta e il cinquanta per cento della popolazione.
La peste ebbe origine in oriente, con ogni probabilità in Cina, e si diffuse con grande rapidità, raggiungendo nella primavera del 1347 la prima città europea: si trattava di Caffa,
La peste, che con ogni probabilità ebbe origine in Cina, si diffuse con grande rapidità in Crimea, che a quel tempo era un centro di commercio dei Genovesi. Nell'estate dello stesso anno l'epidemia aveva già colpito Bisanzio e quasi tutti i porti dell'Europa orientale. Dalle zone colpite numerose persone cercarono di emigrare e di raggiungere aree dove fosse possibile sfuggire al contagio, favorendo così inconsapevolmente la sua diffusione. Ben presto dunque la peste raggiunse i porti occidentali, in particolare la Sicilia, Genova, Pisa e Venezia, e di qui si diffuse in tutta l'Europa.
L'Italia fu il paese in cui il morbo si manifestò con maggiore violenza, lasciando segni indelebili e conseguenze che faranno sentire il loro peso anche nei secoli successivi, tanto che qualche storico ha avanzato la proposta di fissare proprio il 1348 come simbolica data della fine del Medioevo. La paura, la sofferenza e la drammaticità della situazione emergono in modo chiaro e sconvolgente dai racconti dei cronisti dell'epoca.
La prima regione dell'Europa occidentale ad essere colpita dall'epidemia nell'Ottobre 1347 fu la Sicilia. Racconta il francescano Michele da Piazza nella sua Historia Siculorum che a portare il morbo furono dodici galee genovesi che raggiunsero il porto di Messina. Quando i Messinesi intuirono da chi aveva avuto origine il contagio cacciarono le navi, ma ciò non bastò a fermare la peste: da questo momento la morte poteva arrivare improvvisamente. La paura e l'incertezza del domani determinarono un imbarbarimento dei costumi e la moderazione lasciò il campo a comportamenti estremi. Sentimenti come il rispetto e la compassione si affievolirono sempre di più sostituiti da egoismo e timore tanto nei confronti dei vivi quanto nei confronti dei morti. Si cercava di non avere contatti con altre persone che potevano essere infette e numerose città vietarono l'ingresso a chi proveniva da una zona già colpita dalla malattia; tuttavia le numerose eccezioni introdotte a questi divieti non consentirono di evitare i contatti con i malati favorendo il diffondersi dell'epidemia.
Il fatto poi che in una città la peste giungesse dopo essere stata importata da un altro Comune accese una forte conflittualità tra le città non ancora colpite e quelle dove il morbo si era già manifestato e infiammò i rancori che già esistevano. Così un medico di Padova, dove il morbo era stato portato da Venezia, pose in apertura del suo Regime contro la peste questa preghiera: "O tu vera guida, tu che determini ogni cosa di questo mondo! Possa, tu che vivi in eterno, risparmiare gli abitanti di Padova e come loro padre fa' sì che nessuna epidemia abbia a colpirli. Raggiungano esse piuttosto Venezia e le terre dei saraceni …".
Se tra Comuni diversi la situazione era tesa, tra coloro che abitavano in una stessa città le cose non andavano meglio. Il carattere improvviso e letale della malattia e terrore di contrarre il morbo da una persona infetta giustificavano il sentimento di sfiducia nei confronti del prossimo. Gli stessi religiosi, che avrebbero dovuto portare gli estremi conforti a chi stava per morire a causa del morbo, nella maggior parte dei casi, per la paura di infettarsi, non svolgevano il proprio compito e ciò contribuiva ad aggravare la situazione poiché uno dei timori più grandi era proprio quello di morire senza essere riusciti a confessarsi e a ricevere l'estrema unzione.
Racconta il canonico Giovanni da Parma che "molti si confessavano quando erano ancora in salute. Giorno e notte rimanevano esposti sugli altari l'ostia consacrata e l'olio degli infermi. Nessun sacerdote voleva portare il sacramento ad eccezione di quelli che miravano ad una qualche ricompensa. E quasi tutti i frati mendicanti e i sacerdoti di Trento sono morti …". Se anche chi cadeva malato avesse avuto qualche possibilità di riprendersi superando la fase critica della malattia, il suo destino era segnato per il fatto che egli veniva abbandonato da tutti, non soltanto dagli amici, ma addirittura anche dai familiari.
In molte delle opere letterarie che ci parlano del periodo della peste è presente il riferimento al fatto che la moglie non volesse più vedere il marito e addirittura il padre non volesse più avere nulla a che fare con i figli nel caso in cui fossero stati colpiti dalla malattia. Gli ammalati rimanevano abbandonati nelle case da cui arrivavano le invocazioni di aiuto che però rimanevano inascoltate, mentre i parenti più stretti, piangendo, si mantenevano a distanza.
Emblematico è il racconto di Marchionne di Coppo Stefani, cronista fiorentino,che riferisce: "… moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocchè come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli diceano: < Io vo per lo medico > e serravano pianamente l'uscio da via, e non vi tornavano più. Costui abbandonato dalle persone e poi da cibo, ed accompagnato dalla febbre si venia meno.
STORIA DELLA MEDICINA
Chirurgia, anatomia e Chiesa cattolica nel Medioevo
Guy de Chauliac, chierico, è considerato il più importante chirurgo medievale L'immagine popolare del Medioevo è stata spesso legata alla descrizione che di esso è stata data nel XVIII secolo dai filosofi illuministi, e rafforzata poi dal pensiero positivista nel XIX secolo. In questa tradizione il Medioevo viene essenzialmente descritto come "Età buia", ovvero un'epoca di barbarie e di ignoranza, dominata da despoti e da una Chiesa oppressiva ed oscurantista; un'epoca in cui la razionalità ed il pensiero scientifico venivano schiacciati dal fanatismo religioso.
Quest'immagine negativa è stata ormai superata dalla più recente critica storica, che ha riscoperto nel Medioevo aspetti luminosi e creativi e ha combattutto la visione di età prettamente barbara ed incolta. In particolare, per quanto riguarda la conoscenza scientifica, i fondamentali studi di Pierre Duhemhanno dato avvio alla riscoperta e alla comprensione di tutta la complessità del sapere medievale in fisica, matematica, astronomia e scienze naturali.
Anche dal punto di vista della medicina si è assistito ad una rivalutazione e riconsiderazione, ed in particolare è stata superata l'immagine popolare di una medicina medioevale priva di sapere scientifico, mista a magia e superstizione.
L'attuale analisi storica degli studi di chirurgia e quelli anatomici, legati anche alla dissezione di cadaveri, con particolare accento ai rapporti con la Chiesa e con i papi. La critica storica La tesi del conflitto In molta letteratura del passato c'è stata un'errata interpretazione soprattutto sulla base dell'opera di Andrew Dickson White, che insieme a John William Draper era stato il fautore della tesi del conflitto in cui si forniva un'immagine storica di una Chiesa fortemente contrapposta alla scienza. Questa tesi era nata durante il XIX secolo, in pieno spirito positivista, e a soffrirne era anche la concezione delle relazioni tra Chiesa e medicina nel Medioevo.
Soprattutto a partire dagli anni settanta del XX secolo, la tesi del conflitto è stata completamente rigettata da tutta la critica storica e ovviamente anche la storia della medicina è stata "epurata" dall'influenza di White e Draper. Ma nella realtà già nel 1908 il medico e storico della medicina James Joseph Walsh si era opposto in modo molto critico alle loro tesi.
Per affermare che storicamente la Chiesa si sarebbe opposta al progresso della medicina, Andrew Dickson White utilizzava argomenti riconducibili grosso modo ad un ragionamento del genere: uomini che credono nei miracoli non possono portare al progresso scientifico di medicina e chirurgia; nel Medioevo gli uomini, e in particolare la Chiesa, credevano nei miracoli; ergo nel Medioevo non può esserci stato alcun progresso nella medicina. Inoltre, secondo White, promuovere lo studio della medicina sarebbe stato contrario agli interessi della Chiesa, dal momento che la fede nei miracoli, e di conseguenza i pellegrinaggi ed il culto e la vendita delle reliquie, le portavano notevoli vantaggi materiali.
« Sarebbe aspettarsi troppo dall'umana natura immaginare che i Pontefici, che ricavavano proficue entrate dalla vendita dell'Agnus Dei, [...] dovessero favorire lo sviluppo di una qualunque scienza che minasse i loro interessi. » Appellandosi poi ad alcune parti del diritto canonico e ad alcune bolle papali (analizzate più avanti in questa stessa voce), lo stesso White affermava che storicamente la Chiesa avrebbe posto notevoli vincoli allo studio e all'avanzamento della chirurgia e dell'anatomia. Tuttavia applicando i moderni metodi storici e rileggendo le fonti, questa tesi automaticamente viene a cadere.
Il problema delle fonti Se, come ha fatto Amundsen ci si pone la domanda «Al clero medievale è stato mai proibito di praticare la medicina e la chirurgia?», il primo approccio nel passato era stato quello di cercare la risposta all'interno di fonti secondarie, quali testi introduttivi alla storia della medicina. Il problema è che questi testi sono stati influenzati da un approccio tradizionalista al Medioevo, così come spiegato nell'introduzione. Si tratta forse anche di testi eccellenti sotto alcuni punti di vista, ma che peccano completamente dal punto di vista storico soprattutto alla luce della scuola degli Annales.
In questi testi ci si può trovare, quindi, di fronte ad affermazioni quali: «sotto Papa Innocenzo II vennero promulgati editti (concilio di Clermont 1130, concilio di Reims 1131, concilio Lateranense 1139) contro la professione medica praticata dagli ecclesiastici» ; «la pratica, e di fatto lo studio e l'insegnamento, della medicina furono vietati all'alto clero nei concili di Reims 1131, Lateranense 1139, Montpellier 1162, Tours 1163, Parigi 1212 e nel secondo Lateranense 1215. Infine le restrizioni riguardarono anche i monaci di livello più basso, e specialmente nel concilio di Le Mans 1247, furono loro vietate le pratiche che implicano il bruciare e il tagliare (chirurgia)» . In altri testi si fa invece riferimento alla separazione tra medicina e chirurgia: «Nel 1163 il canone di Tours con il suo editto, Ecclesia abhorret a sanguine, aveva ordinato che i monaci dovessero interamente astenersi dalle operazioni manuali di chirurgia; come conseguenza questa professione abbandonata cadde nelle mani dei barbieri-chirurghi»; e su quest'ultimo aspetto lo stesso White scrive: «una delle principali obiezioni sviluppate nel Medioevo contro gli studi anatomici fu la massima che 'la Chiesa aborre dagli spargimenti di sangue'. Su questa base, nel 1248, il concilio di Le Mans proibì la chirurgia ai monaci [...] Questa idea era così radicata nella mente della Chiesa universale, che la chirurgia fu considerata disonorevole per oltre mille anni».
Uso delle fonti primarie Si nota facilmente come gli autori di storia della medicina antecedenti agli anni settanta abbiamo aderito confusamente ad un'idea legata al Medioevo senza neanche citare direttamente gli atti dei concili e senza verificare se le proibizioni vengano riferite a tutto il clero o soltanto ad una ristretta parte di esso. In particolare viene continuamente dimenticata la dovuta distinzione tra Clero Regolare (coloro che fanno vita comune come i monaci ed i canonici regolari) e Clero Secolare, e tra Ordini Maggiori (vescovi, presbiteri, diaconi e suddiaconi) e Ordini Minori (ostiarii, lettori, esorcisti e accoliti)[8]; ed è anche importarte ricordare che il Clero Secolare e gli Ordini Minori costituivano al tempo la larga parte del clero[8][12]. Gli autori ai quali si è fatto riferimento, quindi, hanno concluso che storicamente la Chiesa si fosse sistematicamente opposta allo sviluppo della medicina.
Uno studio approfondito del Diritto Canonico del tempo, invece, porta a concludere che la legislazione ecclesiastica in materia aveva un significato molto differente rispetto a quello che può apparire a prima vista, così come fa notare lo stesso Amundsen. Per capire bene la posizione della Chiesa medievale e fare chiarezza sulla questione, quindi, è necessario esaminare direttamente le fonti primarie[13] mettendo per il momento da parte le fonti secondarie.
Frontespizio delle Decretales incluse nel Corpus Iuris Canonici del 1582 La chirurgia trattata nelle fonti primarie È utile esaminare la legislazione ecclesiastica relativa alla pratica della medicina e della chirurgia e in particolare proprio quei concili che la storia della medicina ha messo in particolare evidenza
« Una prava e detestabile consuetudine, a quanto sappiamo, è cresciuta al punto che monaci e canonici regolari, dopo aver ricevuto l'abito e fatta la professione di fede, in spregio alla regola di Benedetto e di Agostino, studiano giurisprudenza e medicina al fine di ricavarne un guadagno temporale. E in verità, spinti dall'impulso dell'avarizia si fanno difensori di cause: fiduciosi nel sostegno delle loro possenti voci, nella varietà dei loro incarichi, essi confondono il giusto con l'ingiusto e il lecito con l'illecito, quando invece dovrebbero dedicarsi ad inni e salmodie. Le costituzioni imperiali attestano invero come sia assurdo ed obbrobrioso per i chierici cercare di diventare esperti in questioni forensi. Con l'Autorità Apostolica stabiliamo allora che tali violatori siano pesantemente puniti. Inoltre, trascurata la cura delle anime e messi da parte gli obblighi del loro ordine, loro stessi promettono salute in cambio di vile denaro, diventando così medici dei corpi umani. E visto anche che un occhio impuro è nunzio di un cuore impuro, ciò di cui si arrossisce a parlarne, la religione non dovrebbe trattare. Pertanto, affinché i monaci ed i canonici siano piacenti a Dio preservati nei loro sacri doveri, proibiamo, in virtù della nostra Autorità Apostolica, che questa pratica continui ulteriormente. » Ad una prima lettura sembra che la Chiesa volesse evitare completamente la pratica della medicina a tutti i rappresentanti del clero, ed è anche vero che lo stesso canone spiega che la medicina è una pratica non particolarmente indicata per uomini di chiesa, dal momento che tale attività comporta la visione di cose imbarazzanti; ma la ragione principale del divieto può essere facilmente vista non tanto nella pratica della professione ma nell'inseguimento del "vile guadagno di denaro". Tutto il canone è evidentemente incentrato sul problema dell'avidità, del lucro e della ricerca della gloria; del resto, nello stesso concilio Lateranense II, viene condannata anche la simonia e l'usura, quindi è chiaro che i temi venali erano il problema centrale. Risulta inoltre evidente come questo canone non sia riferito a tutto il clero, ma solo ad una ristretta parte di esso, cioé ai monaci e ai canonici regolari, e non è specificamente diretto contro la pratica della medicina in sé, ma solamente contro il praticarla a fini di lucro. Inoltre, benché questo canone fosse entrato anche in un concilio ecumenico, la sua importanza fu di breve durata, infatti esso non venne mai inserito in nessuna delle collezioni successive. Pertanto fino a questo punto non si ha alcuna "esplicita" proibizione della pratica della medicina.
« Nel 1219, papa Onorio III pubblicò la bolla Super speculam che in seguito entrò anch'essa nelle Decretales. Questa bolla aveva essenzialmente tre scopi: garantire benefici e prebende agli insegnanti di teologia e ai loro studenti, riaffermare ed estendere il canone del concilio di Tours e vietare lo studio del diritto civile all'università di Parigi. Le disposizioni del canone vennero estese a diaconi, priori ed in generale a tutti coloro che godevano di benefici, ed anche i preti rientrarono nel divieto di allontanamento. Nel Liber Sextus aggiunto alle Decretales nel 1298 da Papa Bonifacio VIII il divieto di allontanarsi viene esteso a qualunque tipo studio. Risulta pertanto chiaro che lo scopo di questi documenti non era quello di vietare lo studio della medicina in sé o di qualsiasi altra materia, ma soltanto quello di garantire che i religiosi non si allontanassero e trascurassero le loro mansioni principali. In particolare la bolla concernente l'Università di Parigi era diretta soprattutto a promuovere lo studio della teologia in quanto a Parigi gli studi secolari rischiavano di farne sparire l'insegnamento.
Il fatto che non si volesse colpire lo studio della medicina in sé in tutti questi decreti e concili si ricava anche dal fatto che tale studio era permesso ai regolari entro i confini dei luoghi religiosi cui appartenevano, e lo studio della medicina in sé non costituiva un ostacolo per la carriera ecclesiastica, infatti Teodorico de' Borgognoni (1206 - 1298) che era un importante medico fu anche vescovo di Cervia, e anche Papa Giovanni XXI era precedentemente stato un medico.
La pratica della medicina presentava però un importante rischio: che la morte del paziente avesse come causa diretta l'azione del medico. A questo proposito Papa Clemente III pubblicò una risposta ad un "canonico" che l'aveva interrogato sull'argomento. Il testo, che poi fu incluso nella Compilatio Secunda e nelle Decretalescosì recitava:
Ma la pratica che maggiormente portava alla morte il malato, per azione diretta del medico, era certamente la chirurgia. Uno scritto di Papa Innocenzo III pubblicato nel 1212 ed inserito poi nelle Decretales fa riferimento diretto al problema. Il testo illustra il pronunciamento del papa riguardo al caso di una donna, morta per non aver seguito scrupolosamente, durante la riabilitazione, le prescrizioni mediche di un monaco che l'aveva precedentemente operata. Il papa stabilì allora che se il monaco, che fosse davvero esperto e zelante nella medicina, avesse agito mosso soltanto dalla pietà e non dalla cupidigia, non avrebbe dovuto essere punito in alcun modo.
Questa vicenda e le preoccupazioni che ne derivarono influirono sulla promulgazione del seguente canone in occasione del quarto concilio ecumenico Lateranense (1215), successivamente incluso anche nelle Decretales:
« Nessun chierico sottoscriva o pronunci una sentenza di morte, né esegua una pena capitale né vi assista. Chi contro questa prescrizione, intendesse recar danno alle chiese o alle persone ecclesiastiche, sia colpito con la censura ecclesiastica. Nessun chierico scriva o detti lettere implicanti una pena di morte; e quindi nelle corti dei principi questo incarico venga affidato non a chierici, ma a laici. Similmente nessun chierico venga messo a capo di predoni o di balestrieri, o, in genere, di uomini che spargono sangue; i suddiaconi, i diaconi, i sacerdoti non esercitino neppure l'arte della chirurgia che comporta ustioni e incisioni; nessuno, finalmente, accompagni con benedizioni le pene inflitte con acqua bollente o gelata, o col ferro ardente, salve, naturalmente le proibizioni che riguardano le monomachie, cioè i duelli, già promulgate. » Questo canone viene citato spesso come divieto a tutti i chierici di praticare la chirurgia, ma ovviamente questa interpretazione è erronea, perché il canone è esplicito nel vietare la chirurgia soltanto a sacerdoti, diaconi e suddiaconi, ovvero gli Ordini maggiori. Una larga parte del clero non è toccata da questo divieto. Inoltre ancora una volta non si tratta di una legge contro la chirurgia in sé, ma soltanto di una proibizione di un'attività non ritenuta consona alla figura dei religiosi (negli Ordini maggiori), per i motivi, più sopra spiegati, legati alla responsabilità di un'eventuale morte del paziente. Infatti questo canone venne ripreso poi in molti concili regionali (Le Mans 1247, Sinodo di Nîmes 1284, Sinodo di Würzburg 1298, Sinodo di Bayeux 1300), sempre inserito in un contesto generale riguardante la condotta e le responsabilità dei chierici; del resto, anche nelle Decretales, il canone originale Lateranense è inserito sotto il titolo Né clerici vel monachi saecularibus negotiis se immisceant (ovvero Chierici e monaci non si immischino negli affari secolari).
In conclusione ci sono analisi come quelle di Andrew Dickson White che hanno voluto interpretare le leggi finora esposte come espressione concreta dell'ostilità della Chiesa verso la medicina e la chirurgia, ma alla luce di un'analisi dettagliata del Diritto Canonico su questo specifico argomento, l'interpretazione di White appare forzata e surrettizia, e non analizza a fondo il problema reale e il reale motivo di emanazione di certi dati
Il clero e la medicina Durante i primi secoli del Medioevo, i monasteri furono i principali luoghi di conservazione di importanti testi di medicina antica, come quelli di Ippocrate, Alessandro di Tralle, Oribasio e Galeno; e sempre nei monasteri la medicina veniva insegnata e praticata. Questa tradizione continuò indisturbata fino al XII secolo, quando poi cominciarono alcuni abusi. Era infatti facile per i monaci lasciare i loro chiostri per esercitare in giro la professione medica, e ciò li espose ad un triplo pericolo: oro, donne, ed ambizione. Il lavoro di medici portava lauti guadagni, e da questi potevano nascere lusso nel vestire e nel mangiare, comportamenti frivoli, orgoglio, arroganza e lussuria[ Per questi motivisi vietò ai monaci e ai canonici regolari di praticare la medicina in cambio di denaro, e successivamente si impose loro l'obbligo di non allontanarsi dai loro monasteri.
Ma queste proibizioni non riguardavano i membri del clero secolare. Questi avevano cominciato a studiare e praticare la medicina sin dal X secolo, e la loro opera era fondamentalmente legata agli ospedali associati alle cattedrali, dal momento che questi chierici avevano l'obbligo di attendere alle cerimonie religiose delle loro chiese e non potevano pertanto allontanarsi più di tanto. Ma quando ai monaci fu vietato di lasciare i loro monasteri, l'importanza e le responsabilità di questi chierici medici crebbero notevolmente, e fu così loro permesso di spostarsi e di viaggiare.
Infine, sia per le motivazioni, più sopra spiegate, legate alla responsabilità delle eventuali morti dei pazienti, sia perché i membri del clero non trascurassero i loro, principali, doveri religiosi in favore dell'attività medica, il canone del concilio Lateranense del 1215 vietò la chirurgia ai soli membri degli Ordini Maggiori, ovvero alla parte più importante del clero che era strettamente legata ai doveri sacri.
Le ragioni della separazione di medicina e chirurgia Il canone del concilio Lateranense IV del 1215 ed il motto Ecclesia abhorret a sanguine, vengono acriticamente utilizzati in molta letteratura per mostrare che da questo punto in avanti chirurgia e medicina furono separate, e la prima lasciata in mano a praticanti poco istruiti (i cosiddetti barbieri-chirurghi). Ma anche questa interpretazione, oltreché essere troppo semplicistica, non tiene conto di diversi fatti storici, e risulta pertanto fuorviante.
Innanzitutto, oltre a non tenere in conto il fatto che la proibizione di esercitare la chirurgia riguardava solo gli Ordini Maggiori, e quindi solo coloro che già normalmente attendevano a ben altri e sacri doveri e poco si dedicavano ad altre attività, questa lettura della storia dà per scontato che la medicina e la chirurgia fossero in precedenza completamente in mano ai chierici, ma in realtà c'erano anche moltissimi laici a studiarle e praticarle. All'interno dell'importantissima Scuola medica salernitana, la medicina era in quel periodo essenzialmente in mano ai laici. Questa scuola produsse uno dei più diffusi trattati di chirurgia medievali, la cosiddetta Chirurgia di Bamberg, che restò un testo di studio basilare fino a che non venne soppiantata, nel corso del XII secolo, dalla Chirurgia di Rogerio Frugardi, anch'egli un laico. Non si capisce come dei laici, che potevano leggere e scrivere in latino, si possano considerare uomini poco istruiti, eppure questo è ciò che sempre hanno assunto coloro che senza approfondire hanno discusso la separazione tra medicina e chirurgia nel Medioevo.
Ma la questione è ben più complessa, e necessita di essere ulteriormente approfondita. Per identificare il medico si utilizzavano nel Medioevo due termini, medicus e physicus. Questi due termini non erano intercambiabili: medicus indicava colui che esercitava la medicina in pratica, visitando pazienti, facendo diagnosi e prescrivendo cure; physicus identificava invece colui che aveva un'approfondita conoscenza teorica della medicina e delle scienze naturali in generale, praticamente un filosofo. Chi esercitava essenzialmente la chirurgia, veniva chiamato, per l'appunto, cyrurgicus; il lavoro di questi era per lo più manuale, ed infatti venivano anche definiti practici, ma non erano certo persone meno istruite dei loro colleghi. Quelli che invece avevano un'istruzione inferiore erano i cosiddetti barbieri-chirurghi (barberus oppure rasorius), che si occupavano essenzialmente di salassi, cura delle ferite e semplici operazioni chirurgiche.
La separazione tra medicina e chirurgia la si ritrova già presso i Romani, e lo stesso Galeno ci testimonia infatti che a suo tempo esisteva una spaccatura tra medici e chirurghi. Questa tradizione passò poi ai medici arabi: Rhazes scrisse infatti come raramente fosse possibile trovare un medico che avesse studiato anche la chirurgia, che rimaneva essenzialmente in mano a degli ignoranti. Ibn Zuhr (conosciuto anche come Avenzoar) all'inizio del XII secolo scrisse che i medici non solo non volevano abbassarsi a fare operazioni manuali, ma evitavano anche di preparare essi stessi i medicinali.
Anche l'occidente fu pertanto influenzato da questa tradizione, che esaltava la nobiltà del physicus e disdegnava le pratiche manuali; e fu proprio per questa tradizione che chirurgia e medicina venivano separate. Johannes Jamatus, un commentatore della Chirurgia di Rogerio Frugardi, spiegava come la medicina fosse messa in pericolo proprio da coloro che disprezzavano la chirurgia e la separavano dalla physica, in quanto avrebbe dovuto essere ovvio a tutti come molte malattie richiedessero necessariamente operazioni chirurgiche. E continuava poi dicendo che molti medici pretendevano di nascondere la loro indolenza lanciando insulti contro una materia che non conoscevano, affermando di non essere questa degna di sporcare le loro mani. Niente a che vedere quindi con le proibizioni ecclesiastiche, che tra l'altro erano molto limitate come abbiamo visto, né ovviamente con l'"Ecclesia abhorret a sanguine" che non è mai esistito
Tuttavia questa separazione non era affatto assoluta e la chirurgia non era affatto universalmente disprezzata: in occidente, nel Medioevo, la chirurgia divenne una scienza avanzata, insegnata e praticata all'interno di tutte le università. Anzi, il suo sviluppo fu più rapido rispetto al resto della medicina, in quanto il suo progresso era essenzialmente basato sull'osservazione e sulla pratica sperimentale, completamente libera da sofisticazioni teoriche. Inoltre esistevano anche i medici completi, alcuni dei quali furono proprio i grandi maestri della medicina medievale, come ad esempio Guy de Chauliac.
Alcuni esempi di chierici chirurghi Molti studenti all'interno delle scuole di medicina erano chierici, e chierici furono tre grandissimi maestri della chirurgia medievale, Guglielmo da Saliceto, Lanfranco da Milano e Guy de Chauliac. Quest'ultimo è considerato ormai da tutti gli storici della medicina uno dei più importanti chirurghi di tutti i tempi; Gabriele Falloppia lo paragonò, per importanza, allo stesso Ippocrate; la sua monumentale Chirurgia Magna, un trattato in tre volumi, restò uno dei più importanti testi di riferimento sulla chirurgia per almeno tre secoli. Solo a titolo di esempio, nel suo trattato Chauliac descrive i pericoli della chirurgia al collo, tra cui la possibilità di rovinare la voce a causa dell'incisione del nervo laringeo; prescrive diete leggere per i feriti; tratta approfonditamente le fratture del cranio; si occupa di ferite al petto che prescrive di richiudere a meno che non ci siano versamenti da rimuovere; descrive come fermare emorraggie attraverso suture, cauterio, legature od astringenti. Molti dei suoi metodi e delle sue tecniche restano tuttora validi. Niente a che vedere quindi con strani rimedi e superstizioni, quali ad esempio (come sosteneva White) impiastri vari e frizioni con denti di cadaver. E Chauliac non fu solo un chirurgo, ma fu un medico completo ed era tra coloro che stigmatizzavano l'atteggiamento dei medici che snobbavano la chirurgia
Anatomia La bolla di Bonifacio VIII L'unico provvedimento ufficiale della Chiesa medievale che, seppur indirettamente, coinvolgeva le dissezioni di cadaveri per lo studio dell'anatomia, è la bolla De sepulturis, conosciuta anche con il nome di Detestandae feritatis, promulgata da Papa Bonifacio VIII nel 1299. Si è detto "indirettamente", perché le ragioni che portarono alla promulgazione di questo decreto riguardavano un campo ben diverso. Durante le Crociate si era diffuso un costume particolare riguardante le sepolture: i corpi dei nobili che morivano combattendo in Terra Santa venivano smembrati, fatti a pezzi e bolliti, al fine di separare la carne dalle ossa, in modo da poter facilmente trasportare queste ultime nei luoghi natali per essere seppellite. Un'altra usanza diffusa tra i nobili era invece quella di tagliare il corpo in più parti in modo da poterle seppellire in diversi luoghi santi, o comunque considerati importanti per il defunto. Questo tipo di pratiche vengono nella bolla definite empie, crudeli, inumane e selvagge; e pertanto il Papa decise di proibire, sotto pena di scomunica, ciò che non solo è abominevole agli occhi di Dio, ma anche rivoltante sotto ogni profilo umano. Pertanto questo documento non riguardava in alcun modo le dissezioni a scopo scientifico; tuttavia è chiaro che eventuali interpretazioni estensive avrebbero potuto portare ad una limitazione degli studi anatomici.
Infatti esistono alcune fonti che attestano come queste interpretazioni estensive abbiano effettivamente avuto luogo. In una glossa aggiunta alla bolla nel 1303 dal cardinale Jean Lemoine, ed entrata anch'essa nel Corpus Iuris Canonici, viene specificato che la proibizione non riguarda solo il bollire il cadavere, ma anche l'eviscerazione, la dissezione e la cremazione. Nel 1345 Guido da Vigevano premetteva nella sua Anatomia che siccome le dissezioni erano proibite dalla Chiesa, ma dato che la conoscenza dell'anatomia era necessaria alla medicina, egli avrebbe illustrato questa materia utilizzando delle immagini appositamente realizzate. Nell'Anatomia Richardi, il suo autore spiegava invece che dal momento che le dissezioni erano un trattamento orribile per il corpo umano, gli anatomisti le praticavano sugli animali. Infine c'è un passo nella Anothomia di Mondino dei Liuzzi, scritta nel 1316, che sembra far riferimento diretto alla bolla di Bonifacio VIII:
Le dissezioni umane nel XIII e XIV secolo Frontespizio di un manoscritto del XIV secolo del Traité de l'Anatomie di Guy de Chauliac Nonostante le citate interpretazioni estensive della bolla De Sepulturis, pare, da ciò che si illustrerà nel seguito di questo paragrafo, che queste siano comunque restate, per lo più, lettera morta; esiste infatti piena evidenza storica del fatto che le dissezioni venissero normalmente effettuate senza particolari obiezioni, né senza destare particolare scandalo. Un esempio fondamentale in tal senso è il fatto che al tempo era assai diffuso il culto delle reliquie (che non erano solo oggetti dei santi ma anche parti del loro corpo), ed era pratica abbastanza comune l'imbalsamazione dei corpi di papi, santi ed anche di capi ed autorità civili
Su questo punto è interessante esaminare la cronaca del trattamento fatto post-mortem al corpo di Santa Chiara da Montefalco nel 1308. Le suore dello stesso convento di Chiara iniziarono, qualche giorno dopo la sua morte, il lavoro di imbalsamazione del cadavere. Dopo averne aperto il corpo, ne estrassero gli organi per conservarli in delle urne, e tra questi trovarono diverse formazioni di tessuti organici che testimoniavano la santità della donna: una croce, una corona di spine ed altri simboli della flagellazione di Cristo. Ovviamente testimoniarono poi tutte queste cose alle autorità ecclesiastiche. Ciò che colpisce nel racconto riportato negli atti del processo di beatificazione, è da una parte l'estrema naturalezza con cui le suore praticavano e descrivevano la dissezione, e dall'altra la stessa naturalezza con cui le autorità ecclesiastiche raccoglievano queste testimonianze. Non venne sollevata alcuna obiezione legale verso i fatti accaduti, e benché questo possa apparire oggi come un racconto macabro, esso risultava perfettamente normale per gli uomini del tempo. Un episodio analogo è l'imbalsamazione della Beata Margherita di Città di Castello, avvenuta davanti all'altare alla presenza di molti frati.
Queste pratiche rendono chiaro che non c'era niente che venisse considerato intrinsecamente degradante o non Cristiano nelle dissezione
Le prime evidenze storiche di dissezioni legate alla medicina risalgono al XIII secolo. Per completezza si osserva che, benché sia riportata in diverse storie della medicina, la legge promulgata da Federico II nel 1241, che stabiliva che i medici della scuola salernitana dovessero fare almeno un anno di pratica anatomica e chirurgica prima di esercitare la professione, non può essere considerata una prova che le dissezioni dei cadaveri fossero cosa comune al tempo; infatti dai testi che circolavano nella scuola si può dedurre che tale pratica venisse fatta sugli animali.
La prima evidenza certa di dissezione umana a scopo scientifico risale invece al 1286 quando, secondo la cronaca di Salimbene, a causa di una non precisata epidemia che aveva causato molte morti in diverse città italiane, un medico eseguì diverse autopsie per studiare la malattia in questione. Un caso importante risale invece al 1302, solo tre anni dopo la promulgazione della bolla di Bonifacio VIII, quando a Bologna un giudice ordinò un'autopsia per accertare se un certo Azzolino degli Onesti fosse morto per avvelenamen Questo caso è significativo, dato che se la legge riconosceva la validità delle indagini autoptiche, significa che queste erano pratiche la cui efficacia ed utilità erano accertate, e che pertanto dovevano avere già al tempo una tradizione sperimentale affermata. Ed è evidente che se un giudice poteva ordinare una dissezione, tale pratica non fosse illegale. Un'altra testimonianza l'abbiamo da Pietro d'Abano, che nel suo trattato De Venenis racconta dell'autopsia di un farmacista che aveva ingoiato una quantità letale di mercurio.
Per quanto riguarda invece le dissezioni umane a scopo didattico, gli storici sono ormai concordi nel ritenere che con ogni probabilità esse furono iniziate all'Università di Bologna, nella scuola di Taddeo Alderotti (1215 - 1295) e Teodorico de' Borgognoni (1206 - 1298), nella seconda metà del XIII secolo. Un indizio storico di questo lo si trova nel manoscritto dell'Anatomia di Henry de Mondeville (1260 - 1320). Mondeville studiò prima a Montpellier, poi a Bologna, dopo di che tornò all'Università di Montpellier per insegnare. Ma in questa università le dissezioni umane non venivano ancora praticate (esse inizieranno solo nel 1376) pertanto Mondeville per le sue lezioni usava delle immagini. Nel suo manoscritto dell'Anatomia i disegni sono purtroppo andati perduti, ma se ne conservano ancora le didascalie associate che ci rivelano i contenuti delle immagini. In esse venivano mostrati dei corpi umani dissezionati, ed è pertanto lecito arguire che Mondeville avesse assistito a delle dissezioni nel periodo bolognese. Un ulteriore indizio che a Bologna le dissezioni fossero praticate è il trattato di chirurgia scritto in questa stessa città da Guglielmo da Saliceto intorno al 1270. Infatti, benché in questo trattato le dissezioni non vengano mai esplicitamente nominate, la maggior parte della storiografia è ormai concorde nell'affermare che esso non poteva non essere basato sull'osservazione diretta di corpi dissezionati.
La prima dimostrazione pubblica di dissezione, della quale si ha notizia certa, è del 1315 e fu eseguita da Mondino dei Liuzzi (1275 - 1326) che la registrò nella sua Anothomia. Oltre che dal punto di vista medico, l'opera di Mondino è assai significativa anche dal punto di vista storico, infatti da essa si può dedurre che Mondino era un anatomista molto esperto e con all'attivo un gran numero di dissezioni effettuate. Infatti, anche se le dissezioni esplicitamente registrate nell'opera sono poche, da un'analisi attenta dei contenuti si dimostra chiaramente che egli avesse una vasta esperienza e una conoscenza approfondita della materia, non giustificabile assumendo che egli avesse effettuato solo qualche rara dissezione. L'opera di Mondino dimostra che ormai le dissezioni erano una tecnica acquisita e normalmente utilizzata all'Università di Bologna, e che pertanto costituivano una pratica perfettamente legale.
Ultima ed importante prova a dimostrazione che le dissezioni non fossero illegali, sono gli atti di un processo svoltosi sempre a Bologna nel dicembre del 1319. Il 20 novembre 1319, quattro studenti trafugarono il cadavere di un certo Pasino, che era stato impiccato il giorno precedente, e lo consegnarono ad un tal Maestro Alberto per assistere ad un'esperienza di dissezione. Alcuni testimoni riconobbero però il corpo di Pasino e denunciarono gli studenti. È interessante notare che solo gli studenti vennero processati, mentre nessuna azione legale venne intrapresa contro Maestro Alberto; e la loro accusa fu soltanto quella di furto di cadavere, la dissezione non venne affatto considerata tra i capi di imputazione.
Tutto questo conferma che, nonostante qualche rara interpretazione estensiva della bolla De Sepulturis, le dissezioni dei corpi umani non erano affatto illegali, e non incontravano particolari opposizioni ufficiali. Anzi, è proprio dal XIV secolo che la pratica della dissezione, partendo da Bologna, iniziò a diffondersi gradualmente in tutte le altre università e scuole mediche, prima in Italia e poi nel resto d'Europa, per culminare poi nella grande tradizione anatomica rinascimentale il cui esponente più autorevole fu Andrea Vesalio
LA STORIA DELLE INFEZIONI BATTERICHE OSPEDALIERE
I PRIMI TENTATIVI EMPIRICI DI CONTROLLO DELLE INEZIONI BATTERICHE(CHIRURGICHE E NON) POSSONO ESSERE RICONDOTTE AI BABILONESI CHE IRRIGAVANO LE FERITE E LE BENDAVANO CON BIRRA E TEREBINTO,AI GRECI CHE COSPARGEVANO LE FERITE CON LIMATURA DELLE SPADE DI BRONZO.
LA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI IATROGENE,PONE LE SUE FONDAMEN TA SULLA INTUIZIONE DI IGNAZ SEMMELWEIS,CHE NEL 1840 DIMOSTRO' L'IMPORTANZA DELL'IGIENE DELLE MANI NELLA TRASMISSIONE DELLE INFEZIONI NEGLI OSPEDALI.
SEMMELWEIS FU IL PRIMO A RICONOSCERE LA PRESENZA DELLE INFEZIONI OSPEDALIERE.
1° REQUISITO DI UN OSPEDALE NON ARRECARE DANNO AL PAZIENTE